Il terremoto dentro. L’esperienza di Claudia, italiana a Tokyo

E’ stato il peggior terremoto nella storia nazionale, e il settimo più grave di sempre a livello mondiale: Era venerdì pomeriggio dell’ora locale, quando in Italia non erano ancora le 7 del mattino, ha investito le coste nord-orientali del Giappone, Tokyo compresa. La terra ha tremato in Giappone con 2 scosse: la prima di 7.9 gradi Richter. La seconda, violentissima, di 8,9 gradi Richter. A Tokyo i grattacieli hanno oscillato, ma le strutture antisismiche hanno resistito. La popolazione è scesa in strada subito dopo la prima scossa, in cerca di un riparo e fuggendo dai palazzi.

La redazione di Udine20 è riuscita a mettersi in contatto con Claudia Casu che ha voluto condividere quanto ha provato in prima persona.  Claudia sarda di nascita e nipponica d’adozione  durante il terremoto si trovava a Tokyo e aveva da poco finito il suo turno a lavoro. Quello che segue è il suo racconto integrale di come ha vissuto questa terribile esperienza. Se volete potete lasciare un commento nell’apposito spazio in fondo alla pagina

Le porte del treno si chiudono mentre scendo svogliatamente le scale mobili. Pazienza, prenderò il prossimo.
Mi dirigo a passo deciso verso i sedili azzurri in mezzo alla piattaforma e prendo posto.
Accanto a me una vecchina in kimono che sonnecchia e due ragazze che cinguettano.

Il turno delle 8 mi ha massacrata.
Sono in piedi dalle 6 e non vedo l’ora di arrivare a casina, farmi una bella doccia calda e mangiare magari un po’ di sushi, oggi me lo merito in fondo.
Un fastidioso ronzio invade l’aria e la vecchina accanto a me apre gli occhi.
“Jishin. Jishin da!” esclama. Il terremoto.

Tutto intorno inizia a vibrare. I pannelli pubblicitari sbattono sulle piastrelle e cominciamo ad avvertire il senso di vuoto.
L’aria è pesante e il pavimento oscilla, impossibile stare seduti, impossibile alzarsi in piedi.
Avvertiamo il sospiro del mondo che si muove sopra di noi, impotenti. La scossa è infinita e non accenna a fermarsi.
Sono sottoterra, paradossalmente abbastanza al sicuro, e il mio pensiero corre immediatamente al 15° piano di un grattacielo vicino Shinjuku. Trascorrono forse più di due minuti prima che riusciamo a muoverci.
Afferro il telefonino che si spegne tra le mie mani. Ieri notte ero troppo stanca e ho scordato di metterlo in carica.

Gli altoparlanti confermano una violenta scossa e invitano alla calma.
Tutto mugola, cingola, vacilla.
Ci dirigiamo tutti lentamente verso il piano terra, sorpresi e storditi.
Il silenzio è impressionante. Sappiamo tutti cosa è successo là fuori ma prendiamo tempo per rendercene conto.
Man mano la gente si raggruppa verso i tornelli, ci scambiamo informazioni e monetine tra sconosciuti.

Davanti a due telefoni pubblici si forma una piccola coda. Nessuno ottiene risposta dall’altro capo del filo.
Un’altra scossa, violenta, ci riporta attenti. Mi aggrappo alla balaustra d’acciaio per non cadere.
Attendo paziente in fila per poter chiamare; la voce metallica risponderà anche a me la stessa cosa.
Nel frattempo arriva un treno che scarica centinaia di persone ammutolite.

Ragiono sul da farsi.
Sono sola in pieno centro a Tokyo, cellulare scarico, il corpo indolenzito.
Devo assolutamente ricaricare la batteria del cellulare.

Decido di uscire all’aperto per farmi un’idea della situazione. La terra trema ancora.
Intorno a me migliaia di persone in giacca e cravatta, alcuni indossano caschi bianchi protettivi.
Le macchine intasano le strade, nessun rumore di clacson. Il panico è ordinato e pulito.
Mi informo e inforco la strada per il negozio Softbank più vicino, un km a sud est.
Lungo il marciapiede cenni di vetri rotti arginati da transenne rosse, gruppi di persone in abito o in divisa.
Turisti sperduti con grosse valigie e le maniche corte, i volti infuocati dalla stanchezza e dallo spavento.
D’istinto cerco il mio viso nella vetrina del negozio accanto.

Finalmente raggiungo il negozio Softbank e connetto il mio cellulare alla presa di corrente.
Appollaiata su uno sgabellino bianco aspetto con pazienza che riprenda vita.
Nel frattempo, impossibile telefonare o spedire sms.
La radio del negozio trasmette le prime sconcertanti informazioni. Qualcuno si accascia nei divanetti bianchi, altri cercano di connettersi a Internet mentre tutto continua a tremare.
Internet!
mi viene in mente Facebook, magari mio marito è riuscito a postare qualcosa.
Ma il traffico dati è pazzesco e la pagina non carica, ho ancora troppa poca batteria.
Mi accorgo anche di avere una fame pazzesca, devo anche andare in bagno.

Da qui posso tornare a piedi al lavoro, e magari chiedere di usare il telefono della manager room.
La batteria è al 50%, no meglio qualcosina in più… 57%, può andare.
Stacco tutto, ringrazio sentitamente il personale e corro, corro.

Il cielo è plumbeo e cade qualche goccia.
Corro tra la folla come posso, schivando le persone, tenendo stretto il telefonino. Non posso chiamare nè spedire messaggi, non so nemmeno se potrò connettermi a Internet.
Supero negozi, alberi, insegne che ogni giorno mi accompagnano mentre cammino assonnata verso il lavoro.
L’adrenalina non mi fa avvertire la stanchezza, corro verso la mia meta.

All’interno dell’ospedale il clima è densissimo.
Decine di persone si sono raccolte davanti allo schermo della hall, che trasmette scene apocalittiche.
Alcune colleghe mi vengono incontro, mi chiedono cosa c’è là fuori, vogliono sapere dove ero, se i treni funzionano.
Trattengo le lacrime e racconto quel poco che ho visto.

Vado a rinfrescarmi alla toilette, e trovo posto vicino all’uscita est.
La linea è debole ma Internet funziona.
Facebook straborda di messaggi, commenti, faccio una fatica enorme a trovare il link giusto nello schermo del mio telefonino.

Mio marito è vivo.
Appena un’ora fa era alla stazione dove mi trovavo al momento della prima terribile scossa.
Ci sono troppi commenti, non riesco a capire dove si trova ora, faccio clic su “mi piace” per manifestare la mia esistenza.

Attendo con il cuore in gola una risposta.
Trascorrono 10 lunghissimi minuti, carico continuamente cercando tra i messaggi, troppi. Forse cammina incessante tra la folla e non riesce a leggere gli aggiornamenti.
Finalmente aggiorna la sua posizione, gli rispondo come posso di aspettarmi lì. Saluto a gesti le mie colleghe dietro al counter e volo via imboccando l’uscita est.

A naso decido di attraversare i canali per poi risalire verso Nord.
Il fiume di persone è sempre più denso, ci muoviamo celermente mantenendo le file e scorriamo ognuno nel proprio flusso.
Non ho una mappa e non posso visualizzare immagini sul telefonino, avanzo spedita seguendo il mio sesto senso.
Attraverso ponti, grattacieli dorati e infuocati dal tramonto dentro al mio esercito silenzioso.
Alla nostra sinistra la Tokyo Sky Tree palpita di luci, la vista mozzafiato della città sospesa sull’acqua toglie a tutti il fiato.
La strada trema, le sopraelevate contengono a fatica la fiumana di gente che si dirige ovunque.
Mi fermo un attimo al Koban per sincerarmi della direzione.
Il poliziotto mi avvisa che la mia meta è ancora lontana, e mi aspettano altri ponti sospesi sui canali e grattacieli da oltrepassare.

Cammino senza sosta seguendo le direzioni ricevute, comincia a fare seriamente freddo ma almeno la pioggia ha lasciato posto a un cielo viola. Il vento soffia gelido e attraversa il colletto della mia camicia bianca.
Guardo giù e vedo le mie gambe infreddolite che sbucano dalla gonna leggera. Oggi ho messo il cappottino caldo, per fortuna.
I negozi man mano spariscono, intorno a me solo palazzoni enormi e insegne gigantesche.
La terra trema ancora o forse è solo la stanchezza che si sta impossessando pian piano di me.
All’improvviso mi rendo conto di aver perso la strada.
Ricarico la pagina Facebook, chiedo aiuto a mio marito che ha il telefono con il GPS. Cavoli sono sicura di essere vicina.
Carico e ricarico decine di volte, i messaggi si affollano ed è difficile tornare al punto esatto. Mia “sorella” lavora nelle vicinanze, riesco a trovare la sua bacheca e scrivere un commento al suo aggiornamento. È rimasta bloccata in ufficio, ma l’edificio è vecchio e verranno presto evacuati tutti.
Passano i minuti, non so che fare. Finalmente leggo il messaggio “scrivi indirizzo”.
Alzo gli occhi e vedo l’insegna enorme dell’AUDI. Mando velocemente questa indicazione, metto il telefonino in tasca e mi accuccio vicino ai cespugli perfettamente potati del negozio.

Una signora un po’ sconvolta mi chiede dove ci troviamo, poi si accoda alla fermata dell’autobus insieme a una manciata di persone. Le auto scorrono lente, in coda tra mezzi cingolati e grossi furgoni. Dall’altro lato della strada sfilano lenti autobus strapieni di gente. Si è fatto buio e uno spicchio di luna osserva placida il finimondo.

Dal buio sbuca una figura familiare, i nostri occhi finalmente si incrociano. Non posso trattenere le lacrime.
Mio marito sta camminando incessantemente da ore. Proviamo a tirar giù una stima del tempo che ci vorrà per percorrere i 10 km che ci separano da casa.
Nel frattempo Luca dall’altro lato della Città si appresta a percorrerne quasi il doppio, SirDic e Sara almeno il triplo. Attualmente è il solo e unico modo per rientrare a casa.

Racconto in pochi secondi a mio marito le ultime ore trascorse, ascolto con ansia la sua versione. Il mobilio del suo ufficio è andato quasi distrutto e sono stati subito evacuati in superficie. Facciamo un piccolo rifornimento di acqua e cibo al primo Family Mart, e proseguiamo il nostro cammino seguendo il GPS del telefonino.
Attraversiamo in fila stradine, ponticelli su laghetti, accanto a noi un serpente interminabile di auto. Finalmente ci immettiamo sulla Route 10, la stessa strada che ogni giorno percorriamo sfrecciando sotto terra.

Davanti a noi un viale immenso di grattacieli mezzo spenti e auto in coda.
La folla scorre veloce e sinuosa, siamo due puntini tra decine di migliaia di persone e camminiamo in fila tenendoci la mano.
Alcuni negozi chiudono le saracinesche, rientrano i furgoncini e le insegne illuminano porte chiuse.
La città che non dorme mai si prende una pausa, come in una qualsiasi città italiana a fine giornata lavorativa.
Penso alla mia famiglia in Italia, non sono ancora riuscita a chiamare nessuno.Chissà se mia sorella ha già sentito qualcosa… la mia mamma deve essere terrorizzata, avrà esclamato “ancora!”, ricordando quando 10 anni fa le si fermò il cuore in gola. Ma questa è un’altra storia.

Mio fratellino può leggere Facebook, sa che appena potrò gli scriverò un’email.Continuiamo la nostra marcia senza sosta, il paraorecchie a volte sembra volare via dalle folate gelide. Guardo fiera i ponpon delle mie ballerine, da quando corro per le scale della Metro ho rinunciato ai tacchi alti e posso camminare per kilometri.

I palazzi si fanno sempre più radi e compaiono le prime fabbriche all’argine del mare.
Il marciapiede si trasforma in una rampa stretta e un po’ ripida, stiamo per immetterci sulla superstrada. Ci aspettano 1317 metri di marcia sospesi sull’acqua.

Le persone si fermano sul ballatoio della rampa, terrorizzate dalle vibrazioni. Il ponte ondeggia lento, ricolmo di auto dagli occhi rossi. Non serve confrontarsi, tiriamo dritti e ci immettiamo nella zona pedonale che costeggia il ponte sul lato destro.
Sotto di noi il mare.Vediamo in lontananza un rossore esteso, verso Kawasaki o giù di lì. Alcuni allentano il passo e indicano la zona. Sembrerebbe un grosso incendio. Ancora non conosciamo l’indescrivibile entità dei danni che il Nord Est del Giappone ha subito in poche decine di minuti.
Il ponte sembra interminabile, le scosse si avvertono lente e profonde e noi possiamo solo avanzare. Nessun treno corre nei binari accanto, sospesi in silenzio nel vuoto.

Finalmente cominciamo la discesa verso l’argine opposto. Le corsie pedonali che costeggiano il mare, così piccine e brulicanti durante la mattina viste dal treno, ora sono deserte e incredibilmente vicine.
I lastroni del marciapiedi sono sconnessi, in alcuni punti sprofondati. In altri sembra siano esplosi i condotti dell’acquedotto, il fango ha raggiunto la carreggiata e invaso parte della corsia. Mio marito scatta alcune foto con il telefonino.
Le auto scorrono appena più veloci da questo lato, ci sono anche alcuni taxi in funzionamento. Siamo molto stanchi ma possiamo camminare ancora, secondo una stima più o meno approssimativa in poco più di un’ora saremo a casa.

Casa. Chissà in che condizioni è, e chissà se la struttura ha retto alla violenza delle scosse.
Il palazzo è relativamente nuovo e progettato per sopportare terremoti di scossa 5, ma questa volta abbiamo abbondantemente superato il limite…

L’ambiente intorno comincia a farsi man mano familiare. Superiamo la penultima, poi l’ultima stazione prima di approssimarci ad attraversare un ramo del Fiume Edo.
Oltrepassato il ponte vediamo svettare la cima del nostro palazzo. È ancora in piedi. Decidiamo di fare un giro leggermente largo per capire se possiamo acquistare cibo per l’indomani e comprendere in generale la situazione.
I marciapiedi sono divelti in alcuni tratti, alcuni crolli sono stati arginati. Questa zona è stata costruita rubando spazio al mare, il terreno è meno solido, c’era da aspettarselo.
Il supermercato aperto 24 ore per tutto l’anno è chiuso. Fa davvero uno strano effetto.

Finalmente attraversiamo la strada di casa e ci infiliamo silenziosi nell’atrio attraverso l’uscita di sicurezza. Accosto la chiave elettronica e la porta a vetri si apre silenziosa. Chiaramente l’ascensore è fuori uso.
Prendiamo le rampe di sicurezza, constatando diversi piccoli crolli della facciata esterna sin dal primo piano. Continuiamo a salire.
La porta di casa è leggermente impolverata, per terra alcune tracce di mattonelle sgretolate. Infilo la chiave con il cuore in gola.

Apriamo con cautela la porta blindata. Premo l’interruttore e la luce si accende.
I quadri alle pareti sono sottosopra, e i lati del parquet ricoperti da polvere bianca.

Levo le scarpe e salgo il gradino del genkan. Le porte sono tutte chiuse, come quando partiamo per un viaggio. Ci buttiamo per terra stremati, ma in pochi secondi siamo di nuovo in piedi. Apro subito la porta scorrevole della cucina.
I cassetti sono tutti aperti e la salsa di soia sanguina giù per lo sportello del frigorifero.
Tutti i mobili sospesi sono miracolosamente rimasti chiusi: i bicchieri di cristallo, i piatti e tutte le stoviglie sono salvi. Stessa sorte per la libreria e la tv: sembra che le scosse si siano sviluppate longitudinalmente, e tutti i mobili disposti orizzontalmente non sono caduti.

Non si può dire lo stesso per le pareti. In diversi punti il muro è divelto, e quasi tutte le porte sono fuori asse. Gli angoli della casa sono tutti lacerati, la trave del soffitto si è staccata dalla parete esterna. Le finestre della living e della camera da letto sono aperte, sebbene fossero chiuse dall’interno con una maniglia a rotazione. Evidentemente le violente vibrazioni hanno fatto ruotare la leva e i pannelli di vetro si sono aperti.

Diversi oggetti sono caduti, alcuni si sono frantumati. Pazienza, mi armo di guanti e raccolgo un po’ di cocci. Il gas è fuori uso ma abbiamo la luce, e l’acqua scorre. Riporto il frigorifero al suo biancore, raccolgo come posso la polvere bianca dal corridoio e dalla camera da letto.

Mio marito nel frattempo ha acceso la tv e stappato una bottiglia di Bordeaux. Mi versa da bere. Ho ancora il cappotto e la sciarpa, mi accascio sulla sedia. Non sento più le gambe.
Apprendo solo ora la furia del terremoto, 8.9 gradi della scala Richter. Il Nord Est del Giappone è dilaniato dallo tsunami. Le vittime si contano a centinaia.

Noi siamo salvi, siamo a casa. E in qualche modo faremo.

La notte passa velocemente, in uno stato di semi-coscienza. Ci sono scosse ogni 5, 10 minuti. Il palazzo ondeggia incessantemente. Una nuova forte scossa alle 4 del mattino mi costringe a svegliare mio marito. Lo specchio sbatte per la parete ma rimane appeso dov’è. In pochi secondi l’urto si affievolisce, e noi ritorniamo nel nostro limbo.

Alle prime luci dell’alba ci alziamo e prepariamo il caffè con un fornellino da campeggio.
Mangio con gusto i savoiardi morbidissimi ricevuti appena due giorni prima da mio fratellino.
Il sole splende magnifico in un cielo azzurro primaverile, mentre il pavimento ondeggia.
Riviviamo increduli le ultime ventiquattro ore e cominciamo a contattare i nostri familiari, finalmente i telefonini funzionano.

Oggi, a due giorni dal disastro, le scosse non sembrano cessare. Sembra che il sisma si stia spostando a sud ovest.
Per strada, nei negozi, in casa, ovunque la terra trema. Mi fa male la testa e un senso di nausea non mi lascia. Ho il terremoto dentro.
Nella nostra città sono esplosi diversi condotti, da questa mattina è stata interrotta la distribuzione dell’acqua. Una nave cisterna sta distribuendo 300 tonnellate d’acqua ai punti di emergenza della zona. Per il momento andiamo avanti con la scorta del nostro tank.

Stamattina abbiamo fatto un piccolo sopralluogo a Tokyo Disneyland, a poche centinaia di metri da casa nostra. Lo scenario è abbastanza sconvolgente. Sembra che la terra sottostante sia esplosa, spaccando interi lastricati; tutte le sopraelevate sono state “espulse” dal terreno fino a un metro di altezza. Ci vorranno mesi per riparare l’immenso danno.

Claudia Casu ha un blog che vi invitiamo a seguire http://kazu-kura.blogspot.com

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