Teatro: Pieri da Brazzaville al Palamostre – 5 febbraio 2012

pieriCosa può esserci di friulano in un ufficiale nato a Roma, naturalizzato francese, immerso per anni nelle foreste d’Africa? Eppure la figura di Pietro Savorgnan di Brazzà racconta al mondo più Friuli di quanto si possa immaginare. Racconta gli umori di una terra che il luogo comune vuole piccola e chiusa, sebbene tanti dei suoi figli si siano sparsi nel mondo non per necessità ma per curiosità.
Pietro è figlio di questa curiosità e percorrerne la vita è la sfida di questa terza avventura friulana – e in friulano – che Paolo Patui divide con Gigi Dall’Aglio. Una danza tribale dove sarà il Friuli ad abbracciare il mondo e non a rifiutarlo avendone paura.

PIERI, UNA FIGURA NECESSARIA

Come ho saputo dell’esistenza di Savorgnan di Brazzà? Un libro di storia in francese per scuole superiori africane scritto in collaborazione tra storici francesi e togolesi. L’ho acquistato in Africa per decentrare il mio punto di vista su quel mondo. In un paragrafetto si parlava brevemente di un esploratore il cui comportamento era contrario a quello di Stanley. Ho notato solo un nome bizzarro. Chiedo a un giovane attore africano di Lomè se conosce un esploratore italiano con un nome strano e che era antagonista di Stanley. «Ah, sì, lo scalzo, il fondatore di Brazzaville». E così il nome mi si è fissato nella memoria (almeno Brazzà, più qualcosa che finiva per “gnan”). Poi un giorno in una libreria di Udine ho visto in vetrina la copertina di un libro dove appariva un bel volto maschile incorniciato da una barba nera. Un volto sereno, ma dallo sguardo dolente e penetrante molto simile a quello di un attore friulano con cui avevo lavorato. Leggo: Pietro Savorgnan di Brazzà: esploratore leggendario. «Toh, chi si rivede», penso. Chiedo a Paolo Patui se conosce questo personaggio. «Eeeeh, mi fa lui, è uno dei grandi furlan ator pal mont». C’è un pizzico d’ironia in quella definizione che si presta sia a definire l’emigrante e in egual misura il viaggiatore o l’ imprenditore, accomunati un una sorta di diaspora percepita dal comune sentire friulano.
Studiandolo sento il peso di questo personaggio che, se pure molto assente dal Friuli, porta il carico dell’educazione di una famiglia che nella regione si è fatta storia, carne e nervi. Scopro il valore mitico di questa figura che tutti, più o meno superficialmente, conoscono, ma di cui ancora discutono nei termini dell’eterno conflitto locale tra posizioni di chiusa e autistica conservazione o di coraggiosa e quasi provocatoria capacità di adattamento, l’ una e l’ altra posizione sempre comunque sorretta da una cocciuta determinazione. Quando si decide di trasportare questo personaggio nel rito della scena teatrale, ci accorgiamo che la forza del suo mito sta nel fatto che tutti, in Friuli, in Francia, in Africa, parlano di lui come se i suoi valori e il suo stile non fossero confinati ad un dibattito del passato. «Ci insegna come conoscere gli altri», «E’ un sognatore, ha mancato di senso pratico», «E’ il grande padre bianco», «Quello che ha fatto è d’esempio per tutti», «Se tutti facessero come lui…ahi, ahi», ecc. E tutti suoi discendenti parlano di lui con quella stessa passione  e  trasporto che si applica a quei fatti e a quelle persone che, con la loro presenza, esercitano il potere di incidere sui nostri comportamenti attuali.
Sulla scena si può raccontare la sua vicenda, ma non basta, sfugge sempre per la tangente. Si può monumentalizzare la sua figura, ma sarebbe ingeneroso per la ricchezza delle implicazioni dei suoi rapporti più privati. Si potrebbe spostare lo sguardo sul valore antropologico della sua “calata” nel mondo dell’Altro, ma resterebbe orbo del suo senso di appartenenza Si potrebbe speculare sul senso  politico attuale del suo percorso, ma sarebbe riduttivo. Lo si potrebbe cantare, liberi da ogni dovere di genere, ma verremmo meno ad un sia pur esile bisogno di conoscenza da parte di quel mondo che avendolo espresso, ora, col teatro,  lo interroga.
Così lo abbiamo affrontato in tanti modi procedendo nella storia più per richiami analogici che logici, suggerendo un puzzle di situazioni e di lingue che vengono espresse nel modo teatralmente più consono al momento evocato e con una conseguente varietà di generi e di tecniche che gli attori sulla scena devono percorrere. Teatro dunque d’immedesimazione, teatro borghese, teatro epico, didattico, grottesco, teatro fisico, corporale, teatro lirico e strumentale, che in una dimensione di divertita ludica leggerezza cerca di mantenere leggibili le coordinate che fanno di Pieri una figura necessaria per la cultura friulana e per il mondo.

Gigi Dall’Aglio

UNO SGUARDO CHE CI FA VEDERE MEGLIO

Le storie si vivono, ma poi finisce che alcune hanno bisogno di essere scritte; e scriverle è un modo per farle rivivere come vuoi tu, libere dai rigori accademici o da perfezioni filologiche; perché a volte bisogna che sia così se no restano storie di ieri, lontane, slacciate dai bisogni di oggi, amiche solo dei bisogni di ieri.  Scrivere su di Brazzà ha certo significato studiarne lo studiabile, documentarsi,  confrontare opinioni e versioni: però poi viene il momento di fare di quell’immenso materiale che fu l’avventurosa esistenza di questo uomo dagli ideali straordinari, una storia che possa essere detta e rivissuta da chi la accompagnerà sulla scena. E’ a questo punto che certe scelte divengono arbitrarie, perché nascono e si muovono da ciò che di quel personaggio ti ha colpito e  da quello che per te è in quel momento il teatro. E in quel momento era voglia di stupore e di gioco, ma anche desiderio di intrecciare i viaggi di Pietro dall’Europa verso l’Africa, con quelli di chi oggi dall’Africa arriva in Europa. Condannati da una sorta di imprinting perverso che ci rende dimentichi  di troppi friulani che hanno saputo essere del mondo e nel mondo,  fin troppo critici nei confronti di noi medesimi, convinti da chissà chi e da chissà cosa di essere un popolo sempre e solo immusonito, chiuso, muto e poco mutevole,  Pietro ci dimostra il contrario. Diviene così una sorta di grimaldello delle coscienze,  un proiettore che getta luce nuova su chi siamo e su chi siamo stati; ci racconta di persone che hanno solcato i mari e i mondi con la convinzione che sia  preferibile condividere un dolore che provocarlo. Con Gigi abbiamo immaginato tanti pezzi, diversi fra loro, opposti, fatti di musica e danza, di parole dette in contesti borghesi, ma anche rurali, tribali e stranieri; pezzi da incollare per una scrittura drammaturgica che fa delle differenze la sua lingua comune; differenze anche di parola laddove il friulano si sovrappone al batekè del Congo e sposa il francese e dà all’italiano quel senso unificatore che ebbe in quello scorcio di ‘800. L’idea era di sfatare un altro luogo comune ovvero che la rivisitazione storica di un personaggio così imponente e così tormentato nell’epilogo della sua esistenza, potesse essere solo affidata a toni drammatici e retorici; ho e abbiamo cercato di fare il possibile per dare vita alla vita di un personaggio che come tutti ha riso e pianto, amato e sperato; si è divertito, ha giocato con la sua paura fino a vincerla, ha frugato nelle pieghe dell’umanità fino a scoprirne i segreti  intimi più veri e sinceri e più brutali e vili trovandoli a volte dove non si aspettava di trovarli. E tutto questo non potevamo abbandonarlo al passato punto e basta, ma andava ancorato all’oggi. Volevamo che parlasse a ciò che siamo, che in qualche modo fosse utile a questi nostri giorni. Senza utilità la memoria è solo nostalgia.

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